NOVITÀ GIURISPRUDENZIALI INERENTI AL DIVORZIO
COS’É LA GIURISPRUDENZA?
La
giurisprudenza
è
l’insieme
delle
sentenze
nelle
quali
sono
state
interpretate
le
norme
relative
ad
uno
specifico
istituto
giuridico
(ad
es.
assegno
divorzile,
furto,
usucapione),
emesse
dagli
Organi
Giurisdizionali
(Giudici
di Pace, Tribunali, Corti di Appello, Corte di Cassazione) dell’intera Nazione.
Ad
es.
l’insieme
delle
sentenze
nelle
quali
è
stata
determinata
la
misura
dell’assegno
di
divorzio
è
“la
giurisprudenza
sulla
determinazione
dell’assegno
di
divorzio”.
L’insieme
delle
sentenze
che
hanno
trattato
il
reato
di
furto è “la giurisprudenza sul reato di furto”etc..
Può accadere che:
1
.
Tutti
i
giudici
emettono,
su
casi
con
caratteristiche
identiche,
sentenze
contenenti
un’interpretazione
univoca
della legge. In questo caso si parla di “
giurisprudenza univoca”
.
2
.
Oppure,
se
la
legge
contiene
delle
frasi
ambigue,
su
casi
con
caratteristiche
identiche,
alcuni
giudici
possono
interpretare
la
legge
in
un
modo
e
altri
in
modo
differente
o
addirittura
opposto.
In
questa
ipotesi
se
vi
è
una
maggioranza
di
giudici
che
interpreta
la
legge
in
uno
specifico
modo
e
una
relativa
minoranza
che
la
interpreta
in
modo
differente
od
opposto,
si
dice
che
esiste
rispettivamente
una
giurisprudenza
“maggioritaria”
o
“dominante”
(nel primo caso) e una relativa “
giurisprudenza minoritaria”
(nel secondo).
3
.
Se
non
c’è
una
maggioranza
e
una
relativa
minoranza
di
giudici
che
interpretano
la
legge
in
modi
differenti
ma
la
misura
di
due
orientamenti
interpretativi,
su
casi
con
caratteristiche
identiche,
è
vicina
al
50%,
o
se
vi
sono
più
orientamenti
nessuno
dei
quali
costituisce
una
maggioranza
assoluta,
(cioè
il
50%
più
1
delle
sentenze
complessive su uno specifico istituto) si dice che su quella materia
“il diritto è controverso”
.
Questa
divergenza
nell’interpretazione
della
legge
può
verificarsi
non
solo
tra
Organi
Giurisdizionali
di
diverse
città ma anche tra giudici dello stesso tribunale.
Questo
può
avvenire
(e
comunemente
avviene)
perché
nessun
giudice
è
vincolato
al
rispetto
delle
regole
espresse
in
una
sentenza
emessa
da
altri
giudici
su
un
caso
analogo
o
identico
a
quello
che
sta
trattando.
Se
lo
fosse
infatti,
il
giudice
che
emettesse
per
primo
una
sentenza
su
uno
specifico
caso,
vincolando
tutti
gli
altri
alla
sua
interpretazione produrrebbe una regola valevole
erga omnes
e cioè una legge.
In
questa
ipotesi
per
assurdo,
un
giudice
che
non
è
stato
eletto
da
nessuno,
avrebbe
il
potere
di
vincolare
tutti
i
cittadini italiani ad obbedire ad una regola che lui da solo ha stabilito nella sua sentenza.
In
sostanza,
se
i
giudici
fossero
tenuti
a
rispettare
l’orientamento
e
l’interpretazione
della
legge
eseguita
da
un
altro
giudice,
quest’ultimo
oltre
al
potere
giudiziario,
(cioè
di
far
rispettare
le
leggi)
avrebbe
anche
il
potere
legislativo
(cioè di creare le leggi), vincolando alla sua interpretazione tutti gli altri giudici e dunque tutti i cittadini.
Per
questo
motivo
e
per
il
fatto
della
tripartizione
dei
poteri
(
legislativo,
esecutivo
e
giudiziario
)
stabilita
dalla
Carta
Costituzionale,
anche
il
Giudice
di
Pace
ad
es.
di
Canicattì
è
libero
di
non
ossequiare
l’interpretazione
della
legge
contenuta
in
un’altra
sentenza,
nemmeno
se
si
tratta
di
una
sentenza
della
Suprema
Corte
di
Cassazione
a
Sezioni Unite emessa su un caso con caratteristiche identiche a quello che sta trattando.
É
infatti
previsto
che
le
sentenze
abbiano
effetto
solo
relativamente
alle
parti
in
lite
nei
confronti
delle
quali
vengono emesse.
A COSA SERVE E COME VIENE USATA LA GIURISPRUDENZA?
Detto
quanto
sopra,
la
giurisprudenza
viene
citata
negli
atti
per
confortare
una
determinata
ricostruzione
interpretativa
della
legge
che
è
stata
condivisa
già
da
altri
giudici
ed
esercitare,
de
facto,
in
questo
modo,
un
influenza
sul
giudicante
della
specifica
causa
trattata.
Per
questo
motivo
è
importante
un
approfondito
studio
della
giurisprudenza nei giudizi contenziosi.
La
sentenza
che
segue,
emessa
di
recente,
che
ha
suscitato
molto
clamore
ed
è
stata
oggetto
di
numerosi
programmi
televisivi,
afferma
che
nel
divorzio
per
determinare
l’
an
debeatur
cioè
se
è
dovuto
l’assegno
divorzile
(
vedi
il
capitolo
dedicato
),
non
bisogna
aver
riguardo
alla
capacità
del
coniuge
economicamente
più
debole
di
conservare
autonomamente
il
tenore
di
vita
goduto
in
costanza
di
matrimonio,
ma
alla
capacità
dello
stesso
di
conseguire
autonomamente
“l’indipendenza
economica”.
Se
ha
la
capacità
di
conseguire
autonomamente
l’indipendenza
economica
l’assegno
gli
va
negato
anche
se
non
ha
la
capacità
di
conservare
autonomamente
il
tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Questa
sentenza,
molto
criticata,
che
rappresenta
una
giurisprudenza
ancora
minoritaria,
è
relativamente
disattesa dai Tribunali di merito.
Le principali critiche alla sentenza:
Il
concetto
di
indipendenza
economica
del
coniuge
non
è
definito.
Significa
che
non
dipende
dall’altro
coniuge,
ma
per
fare
cosa?
Se
il
coniuge
più
debole
non
dipende
dall’altro
perché
è
in
grado
di
nutrirsi
e
di
proteggersi
dalla
intemperie
perché
ha
ad
es.
un
monolocale
a
Tor
Bella
Monaca,
cioè
è
in
grado
di
procurarsi
autonomamente
la
minima
sussistenza
in
vita,
la
concessione
dell’
assegno
divorzile
,
secondo
i
giudici
che
hanno
emesso
questa
sentenza,
sarebbe
sottoposta
agli
stessi
requisiti
previsti
per
la
concessione
dell’
assegno
alimentare
,
ma
questo
non
è previsto dalla legge.
Inoltre
questa
interpretazione
della
legge
produce
effetti
paradossali:
se
ad
es.
la
moglie
di
Berlusconi
avesse
un
monolocale
e
un
lavoro
in
un
call
center
allora
non
avrebbe
diritto
ad
alcun
assegno
divorzile,
mentre
se
non
avesse il monolocale allora avrebbe diritto ad un assegno di 2 milioni di € al mese per tutta la vita.
É
evidente
che
questa
interpretazione
della
legge
creerebbe
delle
sperequazioni
enormi
tra
cittadini
che
si
trovano in condizioni quasi identiche.
Un’altra
critica
mossa
a
questa
sentenza
è
fondata
sul
fatto
che
l’art.
143
del
codice
civile
equipara
espressamente
il
lavoro
casalingo
a
quello
professionale:
se
la
moglie
fa
la
baby
sitter;
la
lavandaia;
la
stiratrice;
la
cuoca
etc.
in
casa,
ha
diritto
non
solo
di
condividere
le
risorse
conseguite
dal
marito
che
esegue
un
lavoro
professionale fuori casa, ma anche a nutrire le stesse aspettative di benessere che nutre il marito per il futuro.
Immaginiamo
che
la
Legge
dicesse
invece
alla
moglie:
se
lavori
in
casa
facendo
la
baby
sitter,
la
lavandaia,
la
stiratrice,
la
cuoca,
la
donna
delle
pulizie,
etc.
mentre
tuo
marito
fa
carriera
lavorando
fuori
casa
e
aumentando
i
propri
redditi,
qualora
tuo
marito
chiede
il
divorzio,
se
hai
una
minima
autosufficienza
rimarrai
solo
con
quella.
Ciò
proprio
perché
scegliendo
di
lavorare
in
casa,
non
hai
potuto
fare
carriera
a
differenza
di
tuo
marito.
Se
la
legge
stabilisse
questo,
è
improbabile
che
la
moglie
accetterebbe
di
inserirsi
in
questo
meccanismo
che
le
impedisce
di
sviluppare
la
propria
personale
economia
per
dedicarsi
alla
famiglia,
sapendo
che
può
trovarsi,
per
questo
motivo,
in
una
condizione
di
minima
autosufficienza,
con
il
divorzio,
in
qualunque
momento.
Se
si
divide
il
lavoro
familiare
da
eseguirsi
in
casa
e
fuori
casa,
devono
essere
divisi
anche
i
redditi
non
importa
chi
dei
due
li
consegue.
Questo
stabilisce
l’art.
143
c.c.
in
costanza
di
matrimonio.
Questo
è
stato
l’orientamento
della
S.
C.
per
circa
30
anni
ed
è
anche
il
motivo
per
cui
il
legislatore
ad.
es.
ha
previsto
che
alla
moglie,
ricorrendone
i
presupposti,
spetta
il
40%
del
TFR
conseguito dal marito.
Un
altro
esempio,
più
elementare:
un
uomo
e
una
donna
si
trovano
su
un’isola
deserta
e
si
accordano
così:
l’uomo
va
a
pescare,
la
donna
accende
il
fuoco,
poi
cucineranno
il
pesce
sul
fuoco
e
si
nutriranno
entrambi.
La
donna
accende
il
fuoco
ma
quando
l’uomo
torna
con
il
pescato
dice:
<ci
ho
ripensato:
mangio
solo
io
il
pesce
crudo
e
tu
muori
di
fame>.
È
ovvio
che
la
donna
non
si
sarebbe
dedicata
ad
accendere
il
fuoco
se
avesse
saputo
che
avrebbe
potuto
morire
di
fame
con
quella
scelta.
Se
la
legge
dicesse
alla
moglie
<se
lavori
in
casa
puoi
trovarti
a
vivere
per
questo
motivo
con
la
minima
autosufficienza>,
ci
sarebbero
poche
donne
che
accetterebbero
di
occuparsi
della
crescita
dei
figli
e
di
lavorare
in
casa.
Questa
condizione
e
questo
regime
giuridico
inciderebbe
sulla
natalità
della
Nazione
ed
è
contrario
ai
principi
di
diritto
che
informano
l’ordinamento
italiano
e
specificamente
il
diritto
di
famiglia.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione Prima Civile
Sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017
Presidente Di Palma Relatore Lamorgese
Fatti di causa
1.
–
Il
Tribunale
di
Milano
ha
dichiarato
lo
scioglimento
del
matrimonio,
contratto
nel
1993,
tra
Vi.Gr..
e
Li.
Ca.
Lo. ed ha respinto la domanda di assegno divorzile proposta da quest’ultima.
2.
–
Il
gravame
della
Lo.
è
stato
rigettato
dalla
Corte
d’appello
di
Milano,
con
sentenza
27
marzo
2014.
2.1.
–
La
Corte,
avendo
ritenuto
che
il
luogo
di
residenza
della
Lo.
(convenuta
nel
giudizio)
fosse
a
(omissis…),
ha
rigettato
l’eccezione
di
incompetenza
territoriale
del
Tribunale
di
Milano,
a
favore
del
Tribunale
di
Roma,
ove
era
la
residenza
o
il
domicilio
del
ricorrente
Gr.,
da
essa
sollevata
sul
presupposto
della
propria
residenza
all’estero,
a
norma
dell’art.
4,
comma
1,
della
legge
1.
dicembre
1970,
n.
898;
ha
ritenuto
poi
non
dovuto
l’assegno
divorzile
in
favore
della
Lo.,
non
avendo
questa
dimostrato
l’inadeguatezza
dei
propri
redditi
ai
fini
della
conservazione
del
tenore
di
vita
matrimoniale,
stante
l’incompletezza
della
documentazione
reddituale
da
essa
prodotta,
in
una
situazione
di
fatto
in
cui l’altro coniuge aveva subito una contrazione reddituale successivamente allo scioglimento del matrimonio.
3.
–
Avverso
questa
sentenza
la
Lo.
ha
proposto
ricorso
per
cassazione
sulla
base
di
quattro
motivi,
cui
si
è
opposto
il
Gr.
Con
controricorso.
Le
parti
hanno
presentato
memorie
ex
art.
378
cod.
proc.
civ.
Ragioni
della
decisione:
1.
–
Con
il
primo
motivo
la
ricorrente
ha
denunciato
la
violazione
dell’art.
4,
comma
1,
della
legge
n.
898
del
1970,
per
avere
la
Corte
d’appello
affermato
la
competenza
per
territorio
del
Tribunale
di
Milano,
essendo
invece
competente
il
Tribunale
di
Roma,
ove
era
la
residenza
o
il
domicilio
del
ricorrente
Gr.,
essendo
la
convenuta
residente all’estero.
1.1.
–
Il
motivo
è
infondato.
Premesso
che,
contrariamente
a
quanto
sostenuto
dal
Gr.,
la
questione
della
competenza
è
stata
riproposta
in
appello
e
che
su
di
essa,
quindi,
non
si
è
formato
il
giudicato,
la
sentenza
impugnata
ha
ragionevolmente
valorizzato
quanto
dichiarato
dalla
Lo.
(convenuta
nel
giudizio)
nell’atto
di
appello,
e
in
altri
atti
giudiziari,
circa
la
sua
residenza
a
(omissis…)
(Mi),
che
corrispondeva
a
quanto
risultava
dalle
certificazioni
anagrafiche,
giudicando
irrilevante
la
diversa
indicazione,
resa
all’udienza
presidenziale,
di
essere
residente
a
(omissis…),
luogo
quest’ultimo
rientrante
pur
sempre
nella
competenza
del
Tribunale
di
Milano;
inoltre,
ha
adeguatamente
argomentato
in
ordine
alla
mancanza
di
prova
della
residenza
all’estero
della
Lo.,
ritenendo
inidonea
a
tal
fine
la
mera
disponibilità
da
parte
della
medesima
di
un’abitazione
negli
Stati
Uniti.
La
decisione
impugnata
è,
pertanto,
conforme
al
principio
enunciato
da
questa
Corte
–
che
va
ribadito
-,
secondo
cui
la
domanda
di
scioglimento
del
matrimonio
civile
o
di
cessazione
degli
effetti
civili
del
matrimonio
concordatario
va
proposta,
ai
sensi
dell’art.
4,
comma
1,
della
legge
n.
898
del
1970
(nel
testo
introdotto
dall’art.
2,
comma
3-bis,
del
d.l.
14
marzo
2005,
n.
35,
convertito
in
legge,
con
modificazioni,
dall’art.
1,
comma
1,
della
legge
14
maggio
2005,
n.
80),
quale
risultante
a
seguito
della
dichiarazione
di
illegittimità
costituzionale
(sentenza
n.
169
del
2008),
al
tribunale
del
luogo
di
residenza
o
domicilio
del
coniuge
convenuto,
salva
l’applicazione
degli
ulteriori
criteri
previsti
in
via
subordinata dalla medesima norma (Cass. ord. n. 15186 del 2014)
.
2.
–
Con
il
secondo
motivo
la
Lo.
ha
denunciato
la
violazione
e
falsa
applicazione
dell’art.
5,
comma
6,
legge
n.
898/1970,
per
avere
la
Corte
milanese
negato
il
suo
diritto
all’assegno
sulla
base
della
circostanza
che
lo
stesso
Gr.
non
avesse
mezzi
adeguati
per
conservare
l’alto
tenore
di
vita
matrimoniale,
dando
rilievo
decisivo
alla
riduzione
dei
suoi
redditi
rispetto
all’epoca
della
separazione,
mentre
avrebbe
dovuto
prima
verificare
la
indisponibilità,
da
parte
dell’ex
coniuge
richiedente,
di
mezzi
adeguati
a
conservare
il
tenore
di
vita
matrimoniale
o
la
sua
impossibilità
di
procurarseli
per
ragioni
oggettive.
Con
il
terzo
motivo
la
Lo.
ha
denunciato
vizio
di
motivazione,
per
avere
omesso
di
considerare
elementi
probatori
rilevanti
al
fine
di
dimostrare
la
sussistenza
del
diritto
all’assegno.
Con
il
quarto
motivo
la
ricorrente
ha
denunciato
la
violazione
degli
artt.
112
e
132
c.p.c,
per
avere
i
giudici
di
merito
escluso
il
diritto
all’assegno,
disconoscendo
la
rilevanza
della
sperequazione
tra
le
situazioni
reddituali
e
patrimoniali
degli
ex
coniugi
e
dando
erroneamente
rilievo
agli
accordi
raggiunti
in
sede
di
separazione
che,
al
contrario,
indicavano
la
disparità economica tra le parti e la mancanza di autosufficienza economica della Lo..
2.1.
–
Tali
motivi
sono
infondati.
Si
rende,
tuttavia,
necessaria,
ai
sensi
dell’art.
384,
quarto
comma,
cod.
proc.
civ.,
la
correzione
della
motivazione
in
diritto
della
sentenza
impugnata,
il
cui
dispositivo
–
come
si
vedrà
(cfr.
infra,
sub n. 2.6) – è conforme a diritto, in base alle considerazioni che seguono.
Una
volta
sciolto
il
matrimonio
civile
o
cessati
gli
effetti
civili
conseguenti
alla
trascrizione
del
matrimonio
religioso
–
sulla
base
dell’accertamento
giudiziale,
passato
in
giudicato,
che
«la
comunione
spirituale
e
materiale
tra
i
coniugi
non
può
essere
mantenuta
o
ricostituita
per
l’esistenza
di
una
delle
cause
previste
dall’articolo
3»
(cfr.
artt.
1
e
2,
mai
modificati,
nonché
l’art.
4,
commi
12
e
16,
della
legge
n.
898
del
1970)
-,
il
rapporto
matrimoniale
si
estingue
definitivamente
sul
piano
sia
dello
status
personale
dei
coniugi,
i
quali
devono
perciò
considerarsi
da
allora
in
poi
“persone
singole”,
sia
dei
loro
rapporti
economico-patrimoniali
(art.
191,
comma
1,
cod.
civ.)
e,
in
particolare,
del
reciproco
dovere
di
assistenza
morale
e
materiale
(art.
143,
comma
2,
cod.
civ.),
fermo
ovviamente,
in
presenza
di
figli,
l’esercizio
della
responsabilità
genitoriale,
con
i
relativi
doveri
e
diritti,
da
parte
di
entrambi
gli
ex
coniugi
(cfr.
artt. 317, comma 2, e da 337-bis a 337-octies cod. civ.).
Perfezionatasi
tale
fattispecie
estintiva
del
rapporto
matrimoniale,
il
diritto
all’assegno
di
divorzio
–
previsto
dall’art.
5,
comma
6,
della
legge
n.
898
del
1970,
nel
testo
sostituito
dall’art.
10
della
legge
n.
74
del
1987
–
è
condizionato
dal
previo
riconoscimento
di
esso
in
base
all’accertamento
giudiziale
della
mancanza
di
«mezzi
adeguati»
dell’ex
coniuge
richiedente
l’assegno
o,
comunque,
dell’impossibilità
dello
stesso
«di
procurarseli
per
ragioni
oggettive».
La
piana
lettura
di
tale
comma
6
dell’art.
5
–
«
Con
la
sentenza
che
pronuncia
lo
scioglimento
o
la
cessazione
degli
effetti
civili
del
matrimonio,
il
tribunale,
tenuto
conto
delle
condizioni
dei
coniugi,
delle
ragioni
della
decisione,
del
contributo
personale
ed
economico
dato
da
ciascuno
alla
conduzione
familiare
ed
alla
formazione
del
patrimonio
di
ciascuno
o
di
quello
comune,
del
reddito
di
entrambi,
e
valutati
tutti
i
suddetti
elementi
anche
in
rapporto
alla
durata
del
matrimonio
dispone
l’obbligo
per
un
coniuge
di
somministrare
periodicamente
a
favore
dell’altro
un
assegno
quando
quest’ultimo
non
ha
mezzi
adeguati
o
comunque
non
può
procurarseli
per
ragioni
oggettive
»
–
mostra
con
evidenza
che
la
sua
stessa
“struttura”
prefigura
un
giudizio
nitidamente
e
rigorosamente
distinto
in
due
fasi
,
il
cui
oggetto
è
costituito,
rispettivamente,
dall’eventuale
riconoscimento
del
diritto
(fase
dell’
an
debeatur
)
e
–
solo
all’esito
positivo
di
tale
prima
fase
–
dalla
determinazione
quantitativa
dell’assegno
(fase
del
quantum
debeatur
).
La
complessiva
ratio
dell’art.
5,
comma
6,
della
legge
n.
898
del
1970
(diritto
condizionato
all’assegno
di
divorzio
e
–
riconosciuto
tale
diritto
-determinazione
e
prestazione
dell’assegno)
ha
fondamento
costituzionale
nel
dovere
inderogabile
di
«solidarietà
economica»
(art.
2,
in
relazione
all’art.
23,
Cost.),
il
cui
adempimento
è
richiesto
ad
entrambi
gli
ex
coniugi,
quali
“persone
singole”,
a
tutela
della
“persona”
economicamente
più
debole
(cosiddetta
“solidarietà
post-coniugale”):
sta
precisamente
in
questo
duplice
fondamento
costituzionale
sia
la
qualificazione
della
natura
dell’assegno
di
divorzio
come
esclusivamente
“assistenziale”
in
favore
dell’ex
coniuge
economicamente
più
debole
(art.
2
Cost.)
–
natura
che
in
questa
sede
va
ribadita
-,
sia
la
giustificazione
della
doverosità
della
sua
«prestazione»
(art.
23
Cost.).
Sicché,
se
il
diritto
all’assegno
di
divorzio
è
riconosciuto
alla
“persona”
dell’ex
coniuge
nella
fase
dell’an
debeatur,
l’assegno
è
“determinato”
esclusivamente
nella
successiva
fase
del
quantum
debeatur,
non
già
“in
ragione”
del
rapporto
matrimoniale
ormai
definitivamente
estinto,
bensì
“in
considerazione”
di
esso
nel
corso
di
tale
seconda
fase
(cfr.
l’incipit
del
comma
6
dell’art.
5
cit:
«[….]
il
tribunale,
tenuto
conto
[….]»),
avendo
lo
stesso
rapporto,
ancorché
estinto
pure
nella
sua
dimensione
economico-patrimoniale,
caratterizzato,
anche
sul
piano
giuridico,
un
periodo
più
o
meno
lungo
della
vita
in
comune
(«la
comunione
spirituale
e
materiale»)
degli
ex
coniugi.
Deve,
peraltro,
sottolinearsi
che
il
carattere
condizionato
del
diritto
all’assegno
di
divorzio
–
comportando
ovviamente
la
sua
negazione
in
presenza
di
«mezzi
adeguati»
dell’ex
coniuge
richiedente
o
delle
effettive
possibilità
«di
procurarseli»,
vale
a
dire
della
“indipendenza
o
autosufficienza
economica”
dello
stesso
–
comporta
altresì
che,
in
carenza
di
ragioni
di
«solidarietà
economica»,
l’eventuale
riconoscimento
del
diritto
si
risolverebbe
in
una
locupletazione
illegittima,
in
quanto
fondata
esclusivamente
sul
fatto
della
“mera
preesistenza”
di
un
rapporto
matrimoniale
ormai
estinto,
ed
inoltre
di
durata
tendenzialmente
sine
die:
il
discrimine
tra
«solidarietà
economica»
ed
illegittima
locupletazione
sta,
perciò,
proprio
nel
giudizio
sull’esistenza,
o
no,
delle
condizioni
del
diritto
all’assegno,
nella
fase
dell’an
debeatur.
Tali
precisazioni
preliminari
si
rendono
necessarie,
perché
non
di
rado
è
dato
rilevare
nei
provvedimenti
giurisdizionali
aventi
ad
oggetto
l’assegno
di
divorzio
una
indebita
commistione
tra
le
due
“fasi”
del
giudizio
e
tra
i
relativi
accertamenti
che,
essendo
invece
pertinenti
esclusivamente
all’una
o
all’altra
fase, debbono per ciò stesso essere effettuati secondo l’ordine progressivo normativamente stabilito.
2.2.
–
Tanto
premesso,
decisiva
è,
pertanto
–
ai
fini
del
riconoscimento,
o
no,
del
diritto
all’assegno
di
divorzio
all’ex
coniuge
richiedente
-,
l’interpretazione
del
sintagma
normativo
«mezzi
adeguati»
e
della
disposizione
“impossibilità
di
procurarsi
mezzi
adeguati
per
ragioni
oggettive”
nonché,
in
particolare
e
soprattutto,
l’individuazione
dell’indispensabile
“parametro
di
riferimento”,
al
quale
rapportare
l’”adeguatezza-inadeguatezza”
dei
«mezzi»
del
richiedente
l’assegno
e,
inoltre,
la
“possibilità-impossibilità”
dello
stesso
di
procurarseli.
Ribadito,
in
via
generale
–
salve
le
successive
precisazioni
(v.,
infra,
n.
2.4)
-,
che
grava
su
quest’ultimo
l’onere
di
dimostrare
la
sussistenza
delle
condizioni
cui
è
subordinato
il
riconoscimento
del
relativo
diritto,
è
del
tutto
evidente
che
il
concreto
accertamento,
nelle
singole
fattispecie,
dell’adeguatezza-inadeguatezza”
di
«mezzi»
e
della
“possibilità-
impossibilità” di procurarseli può dar luogo a due ipotesi:
1)
se
l’ex
coniuge
richiedente
l’assegno
possiede
«mezzi
adeguati»
o
è
effettivamente
in
grado
di
procurarseli,
il
diritto deve essergli negato tout court;
2)
se,
invece,
lo
stesso
dimostra
di
non
possedere
«mezzi
adeguati»
e
prova
anche
che
«non
può
procurarseli
per
ragioni
oggettive»,
il
diritto
deve
essergli
riconosciuto.
È
noto
che,
sia
prima
sia
dopo
le
fondamentali
sentenze
delle
Sezioni
Unite
nn.
11490
e
11492
del
29
novembre
1990
(cfr.
ex
plurimis,
rispettivamente,
le
sentenze
nn.
3341
del
1978
e
4955
del
1989,
e
nn.
11686
del
2013
e
11870
del
2015),
il
parametro
di
riferimento
–
al
quale
rapportare
l’adeguatezza-inadeguatezza”
dei
«mezzi»
del
richiedente
–
è
stato
costantemente
individuato
da
questa
Corte
nel
«tenore
di
vita
analogo
a
quello
avuto
in
costanza
di
matrimonio,
o
che
poteva
legittimamente
e
ragionevolmente
fondarsi
su
aspettative
maturate
nel
corso
del
matrimonio
stesso,
fissate
al
momento
del
divorzio»
(così
la
sentenza
delle
S.U.
n.
11490
del
1990,
pag.
24).
Sull’attuale
rilevanza
del
“tenore
di
vita
matrimoniale”,
come
parametro
“condizionante”
e
decisivo
nel
giudizio
sul
riconoscimento
del
diritto
all’assegno,
non
incide
–
come
risulterà
chiaramente
alla
luce
delle
successive
osservazioni
–
la
mera
possibilità
di
operarne
in
concreto
un
bilanciamento
con
altri
criteri,
intesi
come
fattori
di
moderazione
e
diminuzione
di
una
somma
predeterminata
in
astratto
sulla
base
di
quel
parametro.
A
distanza
di
quasi
ventisette
anni,
il
Collegio
ritiene
tale
orientamento,
per
le
molteplici
ragioni che seguono, non più attuale, e ciò lo esime dall’osservanza dell’art. 374, terzo comma, cod. proc. civ.
A)
Il
parametro
del
«tenore
di
vita»
–
se
applicato
anche
nella
fase
dell’
an
debeatur
–
collide
radicalmente
con
la
natura
stessa
dell’istituto
del
divorzio
e
con
i
suoi
effetti
giuridici:
infatti,
come
già
osservato
(supra,
sub
n.
2.1),
con
la
sentenza
di
divorzio
il
rapporto
matrimoniale
si
estingue
sul
piano
non
solo
personale
ma
anche
economico-
patrimoniale
–
a
differenza
di
quanto
accade
con
la
separazione
personale,
che
lascia
in
vigore,
seppure
in
forma
attenuata,
gli
obblighi
coniugali
di
cui
all’art.
143
cod.
civ.
-,
sicché
ogni
riferimento
a
tale
rapporto
finisce
illegittimamente
con
il
ripristinarlo
-sia
pure
limitatamente
alla
dimensione
economica
del
“tenore
di
vita
matrimoniale”
ivi
condotto
–
in
una
indebita
prospettiva,
per
così
dire,
di
“ultrattività”
del
vincolo
matrimoniale.
Sono
oltremodo
significativi
al
riguardo:
1)
il
brano
della
citata
sentenza
delle
Sezioni
Unite
n.
11490
del
1990,
secondo
cui
«[….]
è
utile
sottolineare
che
tutto
il
sistema
della
legge
riformata
[….]
privilegia
le
conseguenze
di
una
perdurante
[….]
efficacia
sul
piano
economico
di
un
vincolo
che
sul
piano
personale
è
stato
disciolto
[….]»
(pag.
38);
2)
l’affermazione
della
“funzione
di
riequilibrio”
delle
condizioni
economiche
degli
ex
coniugi
attribuita
da
tale
sentenza
all’assegno
di
divorzio:
«[….]
poiché
il
giudizio
sull’an
del
diritto
all’assegno
è
basato
sulla
determinazione
di
un
quantum
idoneo
ad
eliminare
l’apprezzabile
deterioramento
delle
condizioni
economiche
del
coniuge
che,
in
via
di
massima,
devono
essere
ripristinate,
in
modo
da
ristabilire
un
certo
equilibrio
[….],
è
necessaria
una
determinazione
quantitativa
(sempre
in
via
di
massima)
delle
somme
sufficienti
a
superare
l’inadeguatezza
dei
mezzi
dell’avente
diritto,
che
costituiscono
il
limite
o
tetto
massimo
della
misura
dell’assegno»
(pagg.
24-25:
si
noti
l’evidente commistione tra gli oggetti delle due fasi del giudizio).
B)
La
scelta
di
detto
parametro
implica
l’omessa
considerazione
che
il
diritto
all’assegno
di
divorzio
è
eventualmente
riconosciuto
all’ex
coniuge
richiedente,
nella
fase
dell’an
debeatur,
esclusivamente
come
“persona
singola”
e
non
già
come
(ancora)
“parte”
di
un
rapporto
matrimoniale
ormai
estinto
anche
sul
piano
economico-
patrimoniale,
avendo
il
legislatore
della
riforma
del
1987
informato
la
disciplina
dell’assegno
di
divorzio,
sia
pure
per
implicito
ma
in
modo
inequivoco,
al
principio
di
“autoresponsabilità”
economica
degli
ex
coniugi
dopo
la
pronuncia di divorzio.
C)
La
“necessaria
considerazione”,
da
parte
del
giudice
del
divorzio,
del
preesistente
rapporto
matrimoniale
anche
nella
sua
dimensione
economico-patrimoniale
(«[….]
il
tribunale,
tenuto
conto
delle
condizioni
dei
coniugi,
delle
ragioni
della
decisione,
del
contributo
personale
ed
economico
dato
da
ciascuno
alla
conduzione
familiare
ed
alla
formazione
del
patrimonio
di
ciascuno
o
di
quello
comune,
del
reddito
di
entrambi,
e
valutati
tutti
i
suddetti
elementi
anche
in
rapporto
alla
durata
del
matrimonio
[….]»)
è
normativamente
ed
esplicitamente
prevista
soltanto
per
l’eventuale
fase
del
giudizio
avente
ad
oggetto
la
determinazione
dell’assegno
(quantum
debeatur)
,
vale
a
dire
–
come
già
sottolineato
–
soltanto
dopo
l’esito
positivo
della
fase
precedente
(an
debeatur),
conclusasi
cioè
con
il
riconoscimento del diritto all’assegno.
D)
Il
parametro
del
«tenore
di
vita»
induce
inevitabilmente
ma
inammissibilmente,
come
già
rilevato
(cfr.,
supra,
sub
n.
2.1),
una
indebita
commistione
tra
le
predette
due
“fasi”
del
giudizio
e
tra
i
relativi
accertamenti.
È
significativo,
al
riguardo,
quanto
affermato
dalle
Sezioni
Unite,
sempre
nella
sentenza
n.
11490
del
1990:
«[….]
lo
scopo
di
evitare
rendite
parassitarie
ed
ingiustificate
proiezioni
patrimoniali
di
un
rapporto
personale
sciolto
può
essere
raggiunto
utilizzando
in
maniera
prudente,
in
una
visione
ponderata
e
globale,
tutti
i
criteri
di
quantificazione
supra
descritti,
che
sono
idonei
ad
evitare
siffatte
rendite
ingiustificate,
nonché
a
responsabilizzare
il
coniuge
che
pretende
l’assegno,
imponendogli
di
attivarsi
per
realizzare
la
propria
personalità,
nella
nuova
autonomia di vita, alla stregua di un criterio di dignità sociale [….]».
E)
Le
menzionate
sentenze
delle
Sezioni
Unite
del
1990
si
fecero
carico
della
necessità
di
contemperamento
dell’esigenza
di
superare
la
concezione
patrimonialistica
del
matrimonio
«inteso
come
“sistemazione
definitiva
”,
perché
il
divorzio
è
stato
assorbito
dal
costume
sociale»
(così
la
sentenza
n.
11490
del
1990)
con
l’
esigenza
di
non
turbare
un
costume
sociale
ancora
caratterizzato
dalla
«attuale
esistenza
di
modelli
di
matrimonio
più
tradizionali
,
anche
perché
sorti
in
epoca
molto
anteriore
alla
riforma»,
con
ciò
spiegando
la
preferenza
accordata
ad
un
indirizzo
interpretativo
che
«meno
traumaticamente
rompe[sse]
con
la
passata
tradizione»
(così
ancora
la
sentenza
n.
11490
del
1990).
Questa
esigenza,
tuttavia,
si
è
molto
attenuata
nel
corso
degli
anni
,
essendo
ormai
generalmente
condiviso
nel
costume
sociale
il
significato
del
matrimonio
come
atto
di
libertà
e
di
autoresponsabilità,
nonché
come
luogo
degli
affetti
e
di
effettiva
comunione
di
vita,
in
quanto
tale
dissolubile
(matrimonio
che
–
oggi
–
è
possibile
“sciogliere”,
previo
accordo,
con
una
semplice
dichiarazione
delle
parti
all’ufficiale
dello
stato
civile,
a
norma
dell’art.
12
del
D.L.
12
settembre
2014,
n.
132,
convertito
in
legge,
con
modificazioni,
dall’art.
1,
comma
1,
della
legge
10
novembre
2014,
n.
162).
Ed
è
coerente
con
questo
approdo
sociale
e
legislativo
l’orientamento
di
questa
Corte,
secondo
cui
la
formazione
di
una
famiglia
di
fatto
da
parte
del
coniuge
beneficiario
dell’assegno
divorzile
è
espressione
di
una
scelta
esistenziale,
libera
e
consapevole,
che
si
caratterizza
per
l’assunzione
piena
del
rischio
di
una
eventuale
cessazione
del
rapporto
e,
quindi,
esclude
ogni
residua
solidarietà
postmatrimoniale
da
parte
dell’altro
coniuge,
il
quale
non
può
che
confidare
nell’esonero
definitivo
da
ogni
obbligo
(cfr.
le
sentenze
nn.
6855
del
2015
e
2466
del
2016).
In
proposito,
un’interpretazione
delle
norme
sull’assegno
divorzile
che
producano
l’effetto
di
procrastinare
a
tempo
indeterminato
il
momento
della
recisione
degli
effetti
economico-patrimoniali
del
vincolo
coniugale,
può
tradursi
in
un
ostacolo
alla
costituzione
di
una
nuova
famiglia
successivamente
alla
disgregazione
del
primo
gruppo
familiare,
in
violazione
di
un
diritto
fondamentale
dell’individuo
(cfr.
Cass.
n.
6289/2014)
che
è
ricompreso
tra
quelli
riconosciuti
dalla
Cedu
(art.
12)
e
dalla
Carta
dei
diritti
fondamentali
dell’Unione
Europea
(art.
9).
Si
deve
quindi
ritenere
che
non
sia
configurabile
un
interesse
giuridicamente
rilevante
o
protetto
dell’ex
coniuge
a
conservare
il
tenore
di
vita
matrimoniale.
L’interesse
tutelato
con
l’attribuzione
dell’assegno
divorzile
-come
detto
–
non
è
il
riequilibrio
delle
condizioni
economiche
degli
ex
coniugi,
ma
il
raggiungimento
della
indipendenza
economica,
in
tal
senso
dovendo
intendersi
la
funzione
–
esclusivamente
–
assistenziale dell’assegno divorzile.
F)
Al
di
là
delle
diverse
opinioni
che
si
possono
avere
sulla
rilevanza
ermeneutica
dei
lavori
preparatori
della
legge
n.
74
del
1987
(che
inserì
nell’art.
5
il
fondamentale
riferimento
alla
mancanza
di
“mezzi
adeguati”
e
alla
“impossibilità
di
procurarseli”)
in
senso
innovativo
(come
sosteneva
una
parte
della
dottrina
che
imputava
alla
giurisprudenza
precedente
di
avere
favorito
una
concezione
patrimonialistica
della
condizione
coniugale)
o
sostanzialmente
conservativo
del
precedente
assetto
(si
legga
in
tal
senso
il
brano
della
sentenza
delle
Sezioni
Unite
n.
11490/1990
che
considerava
non
giustificato
«l’abbandono
di
quella
parte
dei
criteri
interpretativi
adottati
in
passato
per
il
giudizio
sull’esistenza
del
diritto
all’assegno»),
non
v’è
dubbio
che
chiara
era
la
volontà
del
legislatore
del
1987
di
evitare
che
il
giudizio
sulla
“adeguatezza
dei
mezzi”
fosse
riferito
«alle
condizioni
del
soggetto
pagante»
anziché
«alle
necessità
del
soggetto
creditore»:
ciò
costituiva
«un
profilo
sul
quale,
al
di
là
di
quelle
che
possono
essere
le
convinzioni
personali
del
relatore,
qui
irrilevanti,
si
è
realizzata
la
convergenza
della
Commissione»
(cfr.
intervento
del
relatore,
sen.
N.
Lipari,
in
Assemblea
del
Senato,
17
febbraio
1987,
561
sed.
pom.,
resoconto
stenografico,
pag.
23).
Nel
giudizio
sull’an
debeatur,
infatti,
non
possono
rientrare
valutazioni
di
tipo
comparativo
tra
le
condizioni
economiche
degli
ex
coniugi,
dovendosi
avere
riguardo
esclusivamente
alle
condizioni
del
soggetto
richiedente
l’assegno
successivamente
al
divorzio
.
Le
osservazioni
critiche
sinora
esposte
non
sono
scalfite:
a)
né
dalla
sentenza
della
Corte
costituzionale
n.
11
del
2015,
che
ha
sostanzialmente
recepito
l’orientamento
in
questa
sede
non
condiviso,
senza
peraltro
prendere
posizione
sulla
sostanza
delle
censure
formulate
dal
giudice
rimettente,
riducendo
quella
sollevata
ad
una
mera
questione
di
«erronea
interpretazione»
dell’art.
5,
comma
6,
della
legge
n.
898
del
1970
e
omettendo
di
considerare
che,
in
una
precedente
occasione,
nell’escludere
la
completa
equiparabilità
del
trattamento
economico
del
coniuge
divorziato
a
quello
del
coniuge
separato,
aveva
affermato
che
«[….]
basterebbe
rilevare
che
per
il
divorziato
l’assegno
di
mantenimento
non
è
correlato
al
tenore
di
vita
matrimoniale»
(sentenza
n.
472
del
1989,
n.
3
del
Considerato
in
diritto);
b)
e
neppure
dalle
disposizioni
di
cui
al
comma
9
dello
stesso
art.
5
–
secondo
cui:
«I
coniugi
devono
presentare
all’udienza
di
comparizione
avanti
al
presidente
del
tribunale
la
dichiarazione
personale
dei
redditi
e
ogni
documentazione
relativa
ai
loro
redditi
e
al
loro
patrimonio
personale
e
comune.
In
caso
di
contestazioni
il
tribunale
dispone
indagini
sui
redditi,
sui
patrimoni
e
sull’effettivo
tenore
di
vita,
valendosi,
se
del
caso,
anche
della
polizia
tributaria»
-,
in
quanto
il
parametro
dell’«effettivo
tenore
di
vita»
è
richiamato
esclusivamente
al
fine
dell’accertamento
dell’effettiva
consistenza
reddituale
e
patrimoniale
dei
coniugi:
infatti
–
se
il
primo
periodo
è
dettato
al
solo
fine
di
consentire
al
presidente
del
tribunale,
nell’udienza
di
comparizione
dei
coniugi,
di
dare
su
base
documentale
«i
provvedimenti
temporanei
e
urgenti
[anche
d’ordine
economico]
che
reputa
opportuni
nell’interesse
dei
coniugi
e
della
prole»
(art.
4,
comma
8)
-,
il
secondo
periodo
invece,
che
presuppone
la
«contestazione»
dei
documenti
prodotti
(concernenti
i
rispettivi
redditi
e
patrimoni),
nell’affidare
al
«tribunale»
le
relative
«indagini»,
cioè
l’accertamento
di
tali
componenti
economico-fiscali,
richiama
il
parametro
dell’«effettivo
tenore
di
vita»
al
fine,
non
già
del
riconoscimento
del
diritto
all’assegno
di
divorzio
al
“singolo”
ex
coniuge
che
lo
fa
valere
ma,
appunto,
dell’accertamento
circa
l’attendibilità
di
detti
documenti
e
dell’effettiva
consistenza
dei
rispettivi
redditi
e
patrimoni
e,
quindi,
del
“giudizio
comparativo”
da
effettuare
nella
fase
del
quantum
debeatur.
È
significativo,
al
riguardo,
che
il
riferimento
agli
elementi
del
“reddito”
e
del
“patrimonio”
degli
ex
coniugi
è
contenuto
proprio
nella
prima
parte
del
comma
6
dell’art.
5
relativa
a
tale
fase
del
giudizio.
2.3.
–
Le
precedenti
osservazioni
critiche
verso
il
parametro
del
«tenore
di
vita»
richiedono,
pertanto,
l’individuazione
di
un
parametro
diverso,
che
sia
coerente
con
le
premesse.
Il
Collegio
ritiene
che
un
parametro
di
riferimento
siffatto
–
cui
rapportare
il
giudizio
sull’
“adeguatezza-inadeguatezza”
dei
«mezzi»
dell’ex
coniuge
richiedente
l’assegno
di
divorzio
e
sulla
“possibilità-impossibilità
«per
ragioni
oggettive»”
dello
stesso
di
procurarseli
–
vada
individuato
nel
raggiungimento
dell'
“
indipendenza
economica
”
del
richiedente:
se
è
accertato
che
quest’ultimo
è
“economicamente
indipendente”
o
è
effettivamente
in
grado
di
esserlo,
non
deve
essergli
riconosciuto
il
relativo
diritto.
Tale
parametro
ha,
innanzitutto,
una
espressa
base
normativa:
infatti,
esso
è
tratto
dal
vigente
art.
337-septies,
primo
comma,
cod.
civ.
–
ma
era
già
previsto
dal
primo
comma
dell’art.
155-quinquies,
inserito
dall’art.
1,
comma
2,
della
legge
8
febbraio
2006,
n.
54
–
il
quale,
recante
«Disposizioni
in
favore
dei
figli
maggiorenni»,
stabilisce,
nel
primo
periodo:
«Il
giudice,
valutate
le
circostanze,
può
disporre
in
favore
dei
figli
maggiorenni
non
indipendenti
economicamente
il
pagamento
di
un
assegno
periodico».
La
legittimità
del
richiamo
di
questo
parametro
–
e
della
sua
applicazione
alla
fattispecie
in
esame
–
sta,
innanzitutto,
nell’analogia
legis
(art.
12,
comma
2,
primo
periodo,
delle
disposizioni
sulla
legge
in
generale)
tra
tale
disciplina
e
quella
dell’assegno
di
divorzio, in assenza di uno specifico contenuto normativo della nozione di “adeguatezza dei mezzi”, a norma dell’art.
5,
comma
6,
legge
n.
898
del
1970,
trattandosi
in
entrambi
i
casi,
mutatis
mutandis,
di
prestazioni
economiche
regolate
nell’ambito
del
diritto
di
famiglia
e
dei
relativi
rapporti.
In
secondo
luogo,
il
parametro
della
“indipendenza
economica”
–
se
condiziona
negativamente
il
diritto
del
figlio
maggiorenne
alla
prestazione
(«assegno
periodico»)
dovuta
dai
genitori,
nonostante
le
garanzie
di
uno
status
filiationis
tendenzialmente
stabile
e
permanente
(art.
238
cod.
civ.)
e
di
una
specifica
previsione
costituzionale
(art.
30,
comma
1)
che
riconosce
anche
allo
stesso
figlio
maggiorenne
il
diritto
al
mantenimento,
all’istruzione
ed
alla
educazione
-,
a
maggior
ragione
può
essere
richiamato
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